Difesa personale e lotta a terra: realismo e realtà a confronto
Affronto questo argomento in maniera imparziale, perché pur detenendo diversi gradi in varie forme di karate ho anche approfondito lo studio delle tecniche di corpo a corpo attraverso il judo, il jujitsu, l’aiki-jujutsu e, infine il bjj.
Inoltre ho gareggiato in diverse discipline e continuo tuttora a confrontarmi, sia in Italia che nel corso dei miei viaggi, con alcuni dei migliori praticanti e maestri di jiujitsu brasiliano al mondo.
L’unica difficoltà che incontro ora è dare chiarezza e sintesi a un pensiero sviluppato in più di trenta anni di studio e pratica, chiedo al lettore un poco di pazienza e, se gli dovesse sembrare che io abbia tralasciato qualcosa, di venire a praticare insieme per ai miei allievi nel mio dojo, per poi discutere riguardo a qualsiasi punto di questo scritto, perché l’esperienza nelle arti marziali è sempre e solo personale.
Provengo da una scuola di judo che, per tradizione, ha una base notevole di lavoro al suolo, che nel Judo prende il nome di Ne-waza.
Quando, nel 2004, dopo sette anni dal mio ultimo torneo ufficiale di judo (terzo posto ai campionati italiani assoluti a Roma e ultima convocazione in nazionale) ho cominciato la pratica del jiujitsu brasiliano (conosciuto come BJJ, o Brazilian Jiujitsu) non lo ho fatto perché mi sentissi carente nella lotta al suolo, ma perché da subito ho trovato in questo stile un realismo che il judo di allora andava perdendo; e la ricerca del realismo nel combattimento è sempre stata il motore del mio percorso marziale.
Infatti il successo del jiujitsu della scuola Gracie al primo UFC, nel 1993, non mi stupì più di tanto, era invece la dimostrazione della superiorità e della validità non dello stile, ma degli allenamenti delle discipline di lotta su quelle percussive.
In quegli anni, e purtroppo in molti casi ancora in questi tempi, il karate, il kung fu e gli altri stili basati sullo studio e l’applicazione delle tecniche di percussione, si limitavano a allenamenti in cui veniva colpito il vuoto, le forme erano studiate per passare gli esami, il combattimento era controllato e la difesa personale subiva il fascino della “cultura della mossa”.
Nel tanto bistrattato Judo di allora (così come nella lotta e nel jiujitsu) la tecnica veniva invece studiata, analizzata e incorporata in forme di allenamento sempre più realistiche, fino al randori in palestra e alla competizione, per chi avesse voluto cimentarsi anche in questo aspetto dell’arte.
Intendo qui per realismo una forma di allenamento in cui siano simulati in maniera sicura e razionale quegli elementi, anche psicologici e emotivi, che lo avvicinano a un vero scontro, in particolare la possibilità del compagno di agire in maniera libera, e non convenzionata, alle tecniche che sta subendo.
Diventa facile capire che i lottatori sono avvantaggiati rispetto alle altre discipline, perché fin da subito provano le tecniche con un compagno dello stesso peso, poi via via si cimentano con le stesse contro compagni di altro peso e livello, studiando esattamente quello che poi applicheranno in combattimento.
Analizzando uno scontro individuale possiamo notare che il vincitore è colui che prende il sopravvento attraverso la padronanza del tempo e della distanza, e più quest’ultimo elemento viene a ridursi, più viene a ridursi l’efficacia delle tecniche di percussione.
Alcuni praticanti di arti marziali basate principalmente sulle percussioni amano spiegare ai loro allievi che, in caso di una lotta al suolo, è possibile liberarsi agevolmente attaccando gli occhi, la gola, i genitali o mordendo e graffiando.
Tralasciando la determinazione mentale e la forza fisica per “cavare un occhio” a una persona, e le infinite varianti di uno scontro senza regole, già ai primi tempi del mio percorso nel judo, da cintura blu, praticavamo in palestra lotte in cui era possibile eseguire queste tecniche, e, per lo più, provocavano una maggior rabbia in chi stava dominando la lotta piuttosto che una temporanea sospensione dell’attacco.
Aggiungo che ogni arte marziale è nata con un bagaglio variegato di tecniche su ogni distanza, e che solo lo sport coi suoi regolamenti ha creato tutte queste distinzioni tra gli stili che solo le MMA hanno superato.
Concludo con due considerazioni, la prima riguardante il come insegnare ai karateka queste tecniche.
Personalmente, oltre a consigliare ai miei allievi più esperti di comprare un GI e una cintura bianca e frequentare almeno due volte al mese il corso di BJJ della mia accademia, comincio a proporre le tecniche di lancio partendo dall’applicazione dei movimenti dei kata applicati al kumite.
Nei miei corsi di karate, e non solo in quelli di bjj, pongo molta enfasi sullo studio dei modi per attutire l’impatto di una caduta al suolo.
Per me infatti, e questa è la seconda considerazione, la lotta al suolo è l’ultima ratio di uno scontro individuale, soprattutto nella difesa personale, e nel corpo a corpo ritengo più utili le tecniche di proiezione, che possono avere effetti ben più devastanti.
Dopo di che spiego come controllare la persona che è stata proiettata, eventualmente come applicare una torsione o un soffocamento.
A questo punto spiego cosa potrebbe fare la persona che si trovasse a essere proiettata per difendersi dal controllo e così posso inserire il lavoro a terra in maniera razionale e graduale.
Andrea Stoppa
Sensei cintura nera quinto grado di karate
Maestro cintura nera secondo grado di jiujitsu brasiliano