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Archivi del mese :

gennaio 2020

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SEMINARIO LEG LOCKS!

Domenica 16 febbraio il Maestro Federico Tisi animerà un seminario di BJJ riguardante le leve alle gambe, trattando non solo le tecniche legali nelle competizioni IBJJF, ma anche quelle valide nei soli tornei di grappling o MMA.

L’evento si terrà presso la sede della ASD a partire dalle 10.00 circa e è aperto a tutte le accademie.

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BJJ: Robert è bronzo al campionato europeo

Medaglia di bronzo per Robert Marussi ai campionati europei di Lisbona (Portogallo) nella categoria cinture viola Master 4 pesi piuma.

Soddisfazione per la sede di Pordenone di Tribe Italia diretta dl Maestro Andrea Stoppa.
“Robert ha lottato bene- ha detto il Maestro Federico Tisi, fondatore e direttore tecnico di Tribe Italia- è sempre in crescita tecnica e è una persona positiva che dà molto valore al lavoro di squadra”.

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Seminario IBK in Croazia

Dal 9 al 12 gennaio Sensei Andrea Stoppa, Sensei Giacomo Crasti e Fabio Raminelli hanno preso parte al campo invernale organizzato dall’IBK croata diretta da Hanshi Mladen Sancic.
A tenere le lezioni Shihan Cameron Quinn, grande budoka australiano, interprete di Sosaoi Oyama, che si è avvalso della collaborazione di Sensei Andrea per le spiegazioni tecniche.

Ottima esperienza per i nostri atleti, insieme a nuovi e vecchi amici, come Martin Van Emmen, pluricampione del mondo di Thai e Kick boxing, amico di Sensei Andrea da molti anni.

Grazie ai nostri amici croati, HVALA!

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Un’ intervista a Sensei Andrea Stoppa

Claudio Novajolli, judoka e karateka triestino, ha scritto il bel libro “il Karate a Trieste, storie dell’latro secolo”, stampato presso i tipi della Battello Stampatore.

L’imponente lavoro ricostruisce la storia di questa arte marziale nella città di Trieste a partire dal dopoguerra fino quasi ai giorni nostri.
L’autore ha voluto intervistare Sensei Andrea in quanto il karate a contatto pieno della scuola Kyokushin non è presente nella sua città.
Per gentile concessione dell’autore riportiamo qui di seguito l’intervista.

Novajolli – Grazie della disponibilità.
Ti ho visto combattere e vincere nel judo negli anni Novanta. Poi, pur con elevate potenzialità ancora da esprimere, sei passato al karate. Quali le motivazioni?

Stoppa –
Mentre praticavo judo continuavo lo studio di altre forme di arti marziali, volevo mettermi alla prova in altre discipline, magari anche in quelle, come il kyokushinkai, nella quale sono vietate le proiezioni e la lotta al suolo, dove non avrei potuto avvantaggiarmi della mia esperienza nel judo
Inoltre il judo, salvo rare eccezioni, è ormai una disciplina sportiva in cui l’aspetto agonistico ha preso il sopravvento su quello marziale, privandolo così della sua efficacia.

N – Parlami della tua esperienza nel Daido Juku

S – Avevo letto diversi articoli su riviste francesi di arti marziali del Daido Juku, mi sembrava interessante, così nel 2000, mentre ero a Tokio per allearmi, sono riuscito a farmi accettare nell’hombu (palestra centrale) per partecipare a alcune lezioni.
Il mio stile piacque molto al Maestro Azuma, che mi invitò a partecipare al primo campionato del mondo.
Il daido juku sembrava a quei tempi una soluzione ottimale per convogliare tutte le mie esperienze in un unico stile di lotta, ma percepivo che mancava qualcosa, in termini di formazione personale e tecnica.
Se la prima generazione di praticanti era formata come me, con una buona base di kyokushinkai e/o judo, la seconda generazione si trovava a praticare una sorta di mma in karategi, più adatta ai praticanti giovani che alle in persone di ogni età.
In pochi anni l’uso del caschetto passò dall’essere un modo per allenare le tecniche con un certo grado di sicurezza in una forma moderna di budo, all’essere la finalità di una forma realistica di combattimento sportivo.
Molti allievi giapponesi si allontanarono dalla scuola, o incominciarono a studiare le forme classiche del bujiutsu nel tentativo di supplire alle carenze di questo nuovo stile.
Inoltre i rapporti con Azuma si fecero più tesi, per cui diedi le dimissioni e decisi di proseguire in una altra direzione.

Ritengo che l’evoluzione del Daido Juku sia stata negativa trasformando il Bu-do in Bu-sport, da qui la necessità di tornare ad un’arte marziale più strutturata e, appunto, più formativa e rispettosa della persona, quale il Kyokushin della scuola Kenbukai. Per me le discipline del Budo hanno il fine di migliorare la persona fisicamente, mentalmente e spiritualmente, non solo di insegnare a difendersi o a vincere una coppa.

N – Le cronache di sedici anni fa riportano la notizia della tua vittoria (+80 kg) al campionato internazionale di Kyokushinkai di Tolosa, in Francia: senza protezioni, avevi vinto tre incontri per KO, prendendoti la rivincita con certo Kruno Garasic, atleta croato, messo a tappeto per diversi minuti con un calcio girato. Ora, sul il sito web del Kyokushin Kenbukai International ho visto un video di un recente incontro: senza protezioni, senza pugni al volto, ma con un devastante calcio proprio al volto. Quindi, nelle modalità di gara nulla è mutato!
Quindi, le perplessità che ti avevano spinto al Daido Yuku?

Molti atleti della scuola Kenbukai competono nella kickboxing o nelle mma, e la scuola stessa ha sviluppato un sistema di competizione chiamato “shinken Shobu” che prevede i colpi al viso con l’uso di un guantino imbottito.
La scuola Kenbukai è stata fondata da Tsuyoshi Hiroshige ( 1947-2017).
Hiroshige è una stato figura importantissima del karate kyokushinkai, avendo allenato ben quattro campioni mondiali: Kenji Midori, Kenji Yamaki, Hajime Kazumi, Norichika Tsukamoto.
La sua ricerca del karate efficace lo ha portato a creare unki o stile unico di allenamento, nel suo dojo metà delle lezioni si praticano con i pugni al volto e metà con i pugni al corpo.
Il suo insegnamento è stato fortemente influenzato dal Tai Ki Kenpo del Maestro Sawai, di cui è stato allievo.
Quando sono entrato nel dojo del Maestro Kaneko, attuale direttore della scuola Kenbukai e allievo di Hiroshige, mi sono sentito come a casa, trovando conferma della mia ricerca degli ultimi trenta anni, all’interno di un dojo in cui, un clima di serenità, si pratica un karate completo e bilanciato rtra la pratica agonistica e quella marziale.

N – Quale valore dai all’esperienza delle gare?

S – la gara è una esperienza estremamente formativa perché permette di gestire l’ansia, una bella parola con cui mascheriamo la paura, e inoltre mette alla prova la nostra tecnica contro un avversario non collaborativo all’interno di un regolamento abbastanza realistico.

N – Quando le protezioni? Quali protezioni?
S – In palestra sempre!
Nel caso di kumite “pesanti”, tra agonisti, faccio indossare caschetto, paradenti, paravambracci, guanti, corpetto, conchiglia inguinale, ginocchiere e paratibia.
Durante le lezioni regolari, sotto la mia supervisione, chiedo di praticare forme più leggere di kumite, ma sempre con paradenti, guanti, conchiglia e paratibia

N – Ho letto che ritieni i Kihon (i fondamentali) l’aspetto più importante della pratica.
In quale misura l’esigenza di esercitare attacchi al volto e relative difese può essere soddisfatta dai Kihon?

S – Lo scopo non è solo sviluppare un buon pugno, ma la capacità e la versatilità di saper usare tutto il corpo in maniera versatile, così negli spostamenti, come nelle parate e negli attacchi.

N – Ove si ritenga necessaria l’esperienza della gara, perché non si usano i caschetti?

S – Io ritengo che un buon atleta dovrebbe essere versatile e non farsi condizionare dai regolamenti, per cui spesso organizzo tornei con i caschetti, chiusi o aperti.
In realtà i caschetti risolvono parzialmente il problema della sicurezza, tanto che nel pugilato olimpico sono stati eliminati, e spesso fanno concentrare il praticante solo sui colpi al capo, con rischi addirittura maggiori tra gli amatori.

N – Dalle tue foto ho visto che sei immortalato anche con i guantoni.
Dianzi ho riportato una foto del fondatore del Kyokushinkai, Mas Oyama, a torso nudo mentre porta un potente tsuki (pugno): è evidente la differenza radicale con un pugno pugilistico, qual è obbligato dall’uso dei guantoni. Non ritieni che sia controproducente alternare una pratica “tradizionale” ad una con una con guantoni?

S – ho praticato pugilato per un poco e credo che ogni karateka dovrebbe avere l’umiltà di entrare sul ring con i guantoni.
Come ho detto sopra se si intende diventare efficaci bisogna, per quanto possibile, esporsi a nuove esperienze ( e rischi controllati!)

N – Ultima domanda. Ho letto che le tue poliedriche esperienze di arti marziali ed il tuo isolamento qui al Nord-Est ti hanno fatto trovare una tua ‘via’, un tuo ‘do’. Puoi spiegarmi le caratteristiche del tuo personale metodo?

S – in realtà ogni Sensei ha suo metodo personale di insegnamento.
Diciamo che nel percorrere la via marziale (Bu-do) si dovrebbe andare solo in avanti, quindi ora mi trovo forse un poco più avanti di altri e un poco più indietro di altri ancora.
Go-kui, l’essenza del Budo, è qualcosa che si può capire esclusivamente da soli, spero di poter continuare questa mia ricerca per molto altro tempo ancora, e sempre procedendo in avanti.

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Assemblea soci ASD

Come già comunicato il mese scorso con lettera affissa alla bacheca della asd, la assemblea dei scoi si svolgerà venerdì 24 gennaio p.v., presso la palestra della asd all’interno del Polisportivo Gino Rossi, in prima convocazione alle 09.00 e in seconda alle 21.15, dopo la lezione di karate.

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Corsi 2020 e nuovo logo Tribe

Sono già ripartiti dal 2 gennaio i corsi di Jiujitsu Brasiliano e di karate della nostra asd.

Con piacere vi presentiamo il nuovo logo dei corsi di jiujitsu:

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Pizza&Karate

Venerdì 20 dicembre abbiamo organizzato una bella serata di karate, seguita da una buona pizza, per gli atleti e i loro genitori di Pordenone e Aviano, in modo da farci gli auguri per le festività natalizie e rinsaldare i rapporti di amicizia tra tutti noi.

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Raduno Invernale Tribe Jiujitsu Italia

Sabato 14 dicembre 2019 si è svolto il raduno invernale Nord Italia della scuola Tribe Jiujitsu Italia, presso la sede centrale sita nella Thunder Gym di Milano.
Ad animare lo stage il Maestro Rolles Gracie, che con simpatia e professionalità ha insegnato diversi attacchi dalla guardia chiusa.
Propio davanti a Rolles e al nostro Maestro Federico Tisi, è stata consegnata la cintura verde al nostro Matteo Zaharia, buon agonista e ottimo compagno di squadra.

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La differenza tra sport e Budo: un’intervista al Maestro Iwasaki

Una doverosa premessa

Quella che segue è una intervista rilasciata da Tatsuya Iwasaki, già ottimo agonista di kyokushinkai, allievo di Shihan Hiroshige e, attualmente, allenatore di diversi validi atleti di arti marziali miste, nonché fondatore della scuola di combattimento Goukikai.
Ho tradotto e adattato il testo inglese, il quale era già una traduzione dell’originale giapponese (https://d3b.jp/npcolumn/9639).
Ho avuto modo di ammirare la tecnica di Soshou Iwasaki sulle vhs che, a caro prezzo, riuscivo a procurarmi dal Giappone venti anni fa, prima di poter fare finalmente la sua conoscenza nel 2018 e tornare a allenarmi con lui nel 2019, nella palestra di Tokio dove insegna.
Soshou non ama insegnare a gruppi troppo numerosi, ritiene che il suo modo di praticare karate si adatti meglio a un piccolo numero di persone.
Mi sono sentito subito in sintonia con il suo pensiero, che riflette le mie aspirazioni per un karate e per un’arte marziale efficace e formativa.
I lettori mi permettano, come da titolo, una doverosa premessa.
La pratica del kata e degli stili interni può davvero portare a una comprensione più profonda del combattimento e, in generale, del Bu-do, ma è necessario aver praticato con scrupolo i fondamenti delle arti marziali e il combattimento, anche sportivo, con altrettanto zelo.
Personalmente ritengo che alcuni combattenti siano forti indipendentemente dallo stile praticato e che la presa di consapevolezza dei propri limiti, con conseguente cambio di direzione della propria pratica, debba sempre essere il risultato di un lungo percorso e di una profonda riflessione personale.
La profondità delle parole di Soshou, il suo desiderio di ricerca e la modernità del suo sistema di combattimento sono il risultato di questo percorso di formazione personale.
Buona lettura,

Sensei Andrea Stoppa

La differenza tra sport e arti marziali: un’intervista a Soshou Iwasaki

Intervistatore (D): Nel 2001 lei ha lasciato la organizzazione Kyokushinkai-kan, dopo una lunga e onorevole carriera nel karate, per cercare una conversione nelle arti marziali miste (MMA, Mixed Martial Arts), e nel 2002 ha affrontato uno dei più forti combattenti di sempre: Wanderlei Silva.
Ho saputo che quel combattimento fu, al tempo, l’occasione per cominciare a studiare il karate di Okinawa.
Iwasaki (R): Il motivo che mi spinse a studiare il karate di Okinawa fu che se mai avessi avuto la possibilità di combattere contro Wanderlei Silva, avrei voluto essere sicuro di sconfiggerlo.
A quei tempi non avevo conoscenza dei metodi specifici di allenamento nelle MMA, necessari per affrontare quel tipo di competizione.
Quando mi allenavo sotto la guida di Shihan Hiroshige (1947-2018) nel dojo di Jonan a Tokio (dove sono stati formati campioni del mondo di kyokushinkai quali Kenji Midori, Kenji Yamaki, Hajime Kazumi e Norichika Tsukamoto, ndt.) avevo anche praticato arti marziali cinesi, come l’Yi-quan, proprio per questo motivo.
Successivamente ebbi l’opportunità di discutere di questi aspetti dell’allenamento con Kenji Ushiro, Sensei di Bu-Jutsu Karate (come “Bu-jutsu” karate dovremmo intendere una arte marziale che contempli i principi educativi del “do”, o “Via”, ma mantenga l’efficacia del “jutsu”, o “metodo”, tipica di quelle arti marziali che avevano come unico banco di prova lo scontro reale sul campo di battaglia, ndt).
Insieme a un mio compagno di allenamenti ci allenammo con questo Sensei, e io feci kumite contro di lui ma non fui capace di fare nulla.
D.: Intende dire che lei non fu capace di attaccarlo?
R.: Esattamente, non riuscivo a attaccare, fui semplicemente sconfitto.
So che molte persone non potranno capire quello che mi è accaduto, e che altri potrebbero dire che sarebbe bastato lanciarsi contro il mio avversario e attaccare a piena forza, ma questi aspetti sono difficilmente comprensibili fino a quando non si affronta una sfida reale.
Onestamente ho pensato che avrebbe potuto uccidermi.
Dopo questa esperienza ho capito che fino ad allora quello che avevo praticato era solo sport, molto lontano dalle vere arti marziali.
D.: Qual è la differenza tra sport e arti marziali?
R.: Qualunque cosa tu faccia, fino a quando tutto ciò riguarda una vittoria, si tratta di sport.
Lo scopo della pratica delle arti marziali è padroneggiare le arti marziali stesse, non vincere.
Dal punto di vista dello sport, se anche tu usassi le arti marziali in competizione, ma non vincessi, questo non sarebbe un risultato.
Questo riguarda anche le MMA e, come allenatore, io penso la stessa cosa.
Ma dal punto di vista del Bu-jutsu, anche se io vincessi, non vorrebbe dire che io ho vinto grazie alle arti marziali.
Avrei solo vinto una competizione sportiva, una cosa abbastanza simile, ma una contraddizione.
D.: Forse perché per il Bu-jutsu la vittoria riguarda una battaglia o uno scontro senza regole?
R.: Esattamente!
Ad esempio: il karate sarà uno sport dimostrativo ai Giochi Olimpici di Tokio del 2020, ma una medaglia d’oro e la felicità che ne segue non sono un aspetto del vero Bu-jutsu, lo scopo è sempre diverso.
Penso ci sia qualcosa di più importante di questo.
D.: Quali sono stati i cambiamenti più significativi dal momento in cui ha cominciato a allenarsi con questo Sensei?
R.: Mi ha insegnato Bu-jutsu dal 2004 al 2008.
Durante i primi tre mesi mi sono accorto che il mio modo di praticare il kumite stava cambiando.
A quei tempi stavo ancora cercando di diventare un combattente di MMA, così mentre continuavo a praticare con quei combattenti professionisti, la mia interazione con loro cominciò a cambiare.
Cose di cui prima non mi rendevo conto diventarono per me visibili, come quando avversari che non avevo mai sconfitto, venivano misteriosamente battuti.
Mi riesce difficile spiegarmi.
Cominciai a pensare che attraverso gli insegnamenti del maestro qualcosa era cambiato.
D.: Così in soli tre mesi qualcosa era cambiato…
R.: Esattamente.
Mi trovavo ancora quel livello nel quale cercavo di “vedere” le tecniche.
Decisi quindi di investire la mia vita nel Bu-jutsu karate.
Era per me la scoperta di un mondo nel quale i tre elementi di “riproducibilità”, “obiettività” e “universalità” erano perfettamente realizzati.
Potevo sentire che non importava quante volte o in quali contesti io facessi una tecnica, la sua essenza non cambiava, quasi fosse una legge immutabile.
Per esempio, se in un match di pugilato un atleta abile nel contrattaccare incontra un avversario altrettanto abile nel lanciare il primo attacco, la velocità di uno dei due sarà subordinata alla lunghezza del braccio.
Proprio perché ci sono queste condizioni, e non c’è una “legge”, non è possibile riprodurre in altri contesti una tecnica che si sia dimostrata efficace in questo scontro specifico.
Non si tratta quindi di Bu-jutsu.
Non sto più imparando direttamente dal mio maestro, ma sto praticando quello che mi è stato insegnato quindici anni fa.
Così anche se sto insegando a un allievo o mi sto allenando da solo, posso inventare illimitate possibilità per utilizzare le mie tecniche.
Le tecniche escono fuori spontaneamente.
Più ripeto i cinque kata di base (Naiahanci, Sanchin, Kusanku, Passai, Seisan, ndt.) e i movimenti di base, che ho imparato da Sensei, più sono approfondire le mie tecniche, provando piacere nell’allenarmi e senza desiderio di smettere di farlo.
D.: Dunque sta ancora praticando i kata quali Sanchin e Naihanchi?
R.: Sì, e quando penso a questo aspetto della mia pratica, mi viene sempre in mente che l’insegnamento nel kyokushin del compianto Maestro Hiroshige era che il karate deve essere Bu-jutsu.
Ho cominciato a praticare il karate all’età di dodici anni, ma a quel tempo pensavo solo a diventare un campione.
Ma anche se tu vincessi delle gare centinaia di volte, sarebbe accaduto solo perché avevi le conoscenze pratiche sul come ottenere la vittoria, non perché avresti appreso i principi delle arti marziali.
La pratica del Zhan Zhuang (in cinese “meditazione eretta”, in giapponese “ritsu-zen”) dell’Yi-quan (in giapponese “I-ken”), che ho continuato a praticare a mio modo in questi anni, ha svolto un ruolo importante nella comprensione di questi aspetti del Bu-Jutsu Karate.
Ho sempre detto che il Bu-jutsu deve essere composto di tre elementi.
Innanzitutto deve essere riproducibile.
Se una tecnica avesse successo per puro caso, e non fosse riproducibile, allora non è realistica.
Dopo di che ci deve essere obbiettività e universalità, in modo che chiunque possa utilizzare la tecnica.
L’arte marziale insegnata da Sensei aveva tutti questi elementi.
D.: Questo significa che chiunque, ripetendo solamente i kata, potrebbe arrivare a questo livello?
R.: Non posso rispondere a questa domanda, perché nel mio caso i cambiamenti sono cominciati prima dal kumite che avevo praticato per anni.
Quindi non posso dire che se tu ripetessi solamente i kata diventeresti più forte, magari limitandoti solo a ripetere meccanicamente una sequenza di movimenti e senza praticare i bunkai, tra i quali il livello definito “bunkai kumite” è quello che riveste la maggiore importanza.
Ad esempio: rispondi a un attacco di pugno con ude-uke (nel kyokushin questa parate è conosciuta come “uchi-uke”) e contrattacchi con una tecnica di pugno.
In questa semplice sequenza sono contenuti quattro principi del Bu-jutsu.
Innanzitutto devi poter leggere la mente del tuo avversario e il suo movimento iniziale.
Poi sentire se ti sei mosso o meno secondo il “sen” (in giapponese “anticipazione”, ndt).
Ci sono due tipi di sen: sen no sen (azione preventiva) e go no sen (provocare l’azione e agire successivamente all’attacco).
Successivamente devi aver controllato la distanza, o “ma”, lo spazio tra te e il tuo avversario
Nel Bu-jutsu “ma” è la distanza dalla quale è possibile colpire l’avversario senza essere colpiti.
Infine devi unire questi tre aspetti, e si dice che questo stadio finale sia la chiave per neutralizzare l’avversario, che si sia stati capaci o meno di entrare nel suo spazio vitale.
Questi sono gli aspetti più importanti delle arti marziali espressi nel loro giusto ordine.
Guardando un combattimento sportivo puoi essere testimone di qualcosa simile, ma è un evento occasionale, ben lontano da quella legge immutabile a cui mi riferisco, infatti non è possibile ripetere quel movimento in quello stesso modo in altri momenti, facendo così venire a mancare il fattore della riproducibilità.
Per essere più chiaro: cosa fai per aiutare tuo figlio a andare in bicicletta?
Cadrà continuamente e tu lo farai continuamente risalire!
Come nell’apprendere a nuotare, una volta appreso a andare in bicicletta non puoi che migliorare, fino al punto di pedalare con una o addirittura nessuna delle due mani sul manubrio.
Ma, ovviamente, nessuno può fare questo dall’inizio.
Lo stesso sforzo lo fai cercando di ripetere più e più volte il bunkai kumite, tentando di avanzare verso il tuo avversario per controllarlo, non potrai riuscire le prime volte.
Potrai riuscirci forse in maniera inconscia, in questo senso potrai vedere, come dice il maestro, persone che non ripetono il kata riuscire dove tu hai fallito provandolo e viceversa.
Dico questo perché la pratica, il percorso di formazione nel Bu-jutsu, sono diversi da persona a persona e non esiste un ordine logico, un poco come se discutessimo se è nato prima l’uovo o la gallina.
Riguardo all’allenamento, esiste un modo di dire: “allenati nella scuola Naha e combatti con la scuola Shuri”.
Forgiato nel corpo e nello spirito con il kata Sanchin della scuola Naha, puoi capire come usare in un combattimento reale i kata della scuola Shuri come Naiahanchi, Kusanku o Passai.
Molti anni fa il leggendario karateka Choki Motobu (1870-1944) allenava solo Naiahanchi.
Lo capisco pienamente.
Questo kata non ha tecniche difensive, ma contiene solo attacchi, infatti se tu pensassi di bloccare un attacco in uno scontro reale, non faresti in tempo.
Alla fine del mio percorso ho imparato il kata Seisan, della scuola Naha ma, per i suoi movimenti e i suoi contenuti, molto vicino alla scuola Shuri.
Mi sono subito sentito attratto dalla strategia di questo kata e dalla scuola Shuri in generale: quando l’avversario attacca, avanzi verso di lui e assumi il controllo delle sue azioni.
In generale tutto si svolge in un’unica azione, non ci sono due tempi nel movimento, come parata-attacco.
Questi movimenti sono separati in fase di apprendimento, così come in qualunque altro sport, ad esempio il baseball, ma ovviamente c’è una profonda differenza tra l’applicare un’arte marziale e il praticare uno sport.
Più recentemente la pratica dello Zhan Zhuang è stata inserita in maniera regolare nei miei corsi, ma sebbene il lavoro che eseguo e insegno sembri lo stesso visto dal di fuori, i suoi contenuti interni sono gli stessi dei kata del Bu-jutsu karate.
Questa forma di Zhan Zhuang e il kata Sanchin sono in sincronia per me.
D.: il nome Sanchin è lo stesso, ma è completamente diverso dallo stesso kata del Kyokushin, non è vero?
R.: Non ho mai praticato seriamente i kata quando mi allenavo nel kyokushin..
Li memorizzavo e basta per i passaggi di grado.
Non ho mai percepito nulla di reale nei kata.
Se qualcuno che mi avesse conosciuto a quei tempi sapesse che ora lavoro duramente sui kata, ne sarebbe davvero sorpreso!
Anche con queste premesse è però difficile trasmettere questo tipo di karate.
Nella pratica quotidiana è meglio praticare con una o due persone.
È fisicamente impossibile insegnare a dozzine di persone come ai miei tempi nel kyokushin.
Il mio desiderio è riuscire a realizzare a pieno la via del Kyokushin (il significato della parola kyokushin è “la via della verità definitiva”, ndt).
D.: Dopo il suo incontro con questo Sensei nel 2004, ho letto su un giornale che lei si sentì depresso, cosa era successo?
R.: Lo shock fu davvero grande quando realizzai che quello che avevo fatto fino ad allora non era arte marziale.
In realtà tutti quelli che praticano qualcosa chiamandolo “karate” pensano di praticare una qualche forma di Bujutsu.
D.: Lei sentì che quello che aveva praticato fino a allora non avesse valore?
R.: Sì, è così.
A ogni modo penso che lo studio nasca sempre da una esperienza simile di negazione.
Devi sempre partire da questo punto.
Anche se fosse una verità scomoda, è davvero così impossibile rimettersi in discussione?
Quale azione a questo punto rifletterebbe la via Kyokushin: voltare le spalle o mettersi in discussione?
Mi sono sempre fatto questa domanda e la pongo pure a altri.
A quel tempo mi sentivo deluso, depresso, ma cercavo di cambiare.
Se pensi che sia la cosa giusta, puoi scommettere la tua vita su questa scelta.
Questo è lo spirito Kyokushin per me.
Così ho sempre la percezione che la filosofia del kyokushin stia continuando a pulsare dentro di me.
Dal momento in cui nella mia mente è stata inculcata l’idea che il kyokushin è l’arte marziale più forte del pianeta, non posso semplicemente accantonare questo pensiero.
Le mie parole sembrano offuscare il karate di Okinawa, ma sto continuando a seguire l’ideale del kyokushin come da sempre.
D.: Capisco, è lo spirito del kyokushin ma la pratica è diversa
R.: La pratica non ha nulla a che vedere con il kyokushin classico.
Alla fine il kyokushin che ho praticato era uno sport, non un’arte marziale.
A ogni modo non sto negando il valore degli sport da combattimento.
Il maestro del mio insegnante soleva dire: “l’allenamento riguarda le arti marziali, e le competizioni gli sport”.
In breve il Bu-jutsu Karate non nega gli sport da combattimento o gli incontri.
Penso che le persone che hanno combattuto in gara e quelle che non lo hanno mai fatto siano completamente differenti.
D.: per finire, per favore, può dirci qualcosa riguardo al nome e alla filosofia della scuola?
R.: Il concetto del Goukikai è “praticare il Bujutsu e competere nelle MMA”.
Questo non vuol dire esclusivamente competere nelle arti marziali miste, ma che bisogna tenere bene a mente che un combattente deve essere versatile.
Più si lavora sui kata originali, più è possibile far nascere questa versatilità dentro di sé.
In questo senso le MMA sono il modo più naturale di particare il karate e affrontare una competizione.
Il nome della mia scuola proviene dal più vecchio testo di arti marziali del Giappone, chiamato “Tosenkyo”, e nel libro è riportata la parola “Goukikadan”: impavido e deciso con forza d’animo.
Da questa frase ho preso il nome della mia scuola: Goukikai.
Per caso, nella scelta del nome, compare una singola lettera del nome del mio maestro, Shihan Tsuyoshi Hiroshige.
Quando gli porsi i miei ultimi saluti prima della sua dipartita, egli mi sorrise e accettò questa mia scelta.
Ho ancora la sensazione di un misterioso legame con il nome del maestro che si è preso cura di me nel karate fin da quando ero bambino