Un’ intervista a Sensei Andrea Stoppa
Claudio Novajolli, judoka e karateka triestino, ha scritto il bel libro “il Karate a Trieste, storie dell’latro secolo”, stampato presso i tipi della Battello Stampatore.
L’imponente lavoro ricostruisce la storia di questa arte marziale nella città di Trieste a partire dal dopoguerra fino quasi ai giorni nostri.
L’autore ha voluto intervistare Sensei Andrea in quanto il karate a contatto pieno della scuola Kyokushin non è presente nella sua città.
Per gentile concessione dell’autore riportiamo qui di seguito l’intervista.
Novajolli – Grazie della disponibilità.
Ti ho visto combattere e vincere nel judo negli anni Novanta. Poi, pur con elevate potenzialità ancora da esprimere, sei passato al karate. Quali le motivazioni?
Stoppa –
Mentre praticavo judo continuavo lo studio di altre forme di arti marziali, volevo mettermi alla prova in altre discipline, magari anche in quelle, come il kyokushinkai, nella quale sono vietate le proiezioni e la lotta al suolo, dove non avrei potuto avvantaggiarmi della mia esperienza nel judo
Inoltre il judo, salvo rare eccezioni, è ormai una disciplina sportiva in cui l’aspetto agonistico ha preso il sopravvento su quello marziale, privandolo così della sua efficacia.
N – Parlami della tua esperienza nel Daido Juku
S – Avevo letto diversi articoli su riviste francesi di arti marziali del Daido Juku, mi sembrava interessante, così nel 2000, mentre ero a Tokio per allearmi, sono riuscito a farmi accettare nell’hombu (palestra centrale) per partecipare a alcune lezioni.
Il mio stile piacque molto al Maestro Azuma, che mi invitò a partecipare al primo campionato del mondo.
Il daido juku sembrava a quei tempi una soluzione ottimale per convogliare tutte le mie esperienze in un unico stile di lotta, ma percepivo che mancava qualcosa, in termini di formazione personale e tecnica.
Se la prima generazione di praticanti era formata come me, con una buona base di kyokushinkai e/o judo, la seconda generazione si trovava a praticare una sorta di mma in karategi, più adatta ai praticanti giovani che alle in persone di ogni età.
In pochi anni l’uso del caschetto passò dall’essere un modo per allenare le tecniche con un certo grado di sicurezza in una forma moderna di budo, all’essere la finalità di una forma realistica di combattimento sportivo.
Molti allievi giapponesi si allontanarono dalla scuola, o incominciarono a studiare le forme classiche del bujiutsu nel tentativo di supplire alle carenze di questo nuovo stile.
Inoltre i rapporti con Azuma si fecero più tesi, per cui diedi le dimissioni e decisi di proseguire in una altra direzione.
Ritengo che l’evoluzione del Daido Juku sia stata negativa trasformando il Bu-do in Bu-sport, da qui la necessità di tornare ad un’arte marziale più strutturata e, appunto, più formativa e rispettosa della persona, quale il Kyokushin della scuola Kenbukai. Per me le discipline del Budo hanno il fine di migliorare la persona fisicamente, mentalmente e spiritualmente, non solo di insegnare a difendersi o a vincere una coppa.
N – Le cronache di sedici anni fa riportano la notizia della tua vittoria (+80 kg) al campionato internazionale di Kyokushinkai di Tolosa, in Francia: senza protezioni, avevi vinto tre incontri per KO, prendendoti la rivincita con certo Kruno Garasic, atleta croato, messo a tappeto per diversi minuti con un calcio girato. Ora, sul il sito web del Kyokushin Kenbukai International ho visto un video di un recente incontro: senza protezioni, senza pugni al volto, ma con un devastante calcio proprio al volto. Quindi, nelle modalità di gara nulla è mutato!
Quindi, le perplessità che ti avevano spinto al Daido Yuku?
Molti atleti della scuola Kenbukai competono nella kickboxing o nelle mma, e la scuola stessa ha sviluppato un sistema di competizione chiamato “shinken Shobu” che prevede i colpi al viso con l’uso di un guantino imbottito.
La scuola Kenbukai è stata fondata da Tsuyoshi Hiroshige ( 1947-2017).
Hiroshige è una stato figura importantissima del karate kyokushinkai, avendo allenato ben quattro campioni mondiali: Kenji Midori, Kenji Yamaki, Hajime Kazumi, Norichika Tsukamoto.
La sua ricerca del karate efficace lo ha portato a creare unki o stile unico di allenamento, nel suo dojo metà delle lezioni si praticano con i pugni al volto e metà con i pugni al corpo.
Il suo insegnamento è stato fortemente influenzato dal Tai Ki Kenpo del Maestro Sawai, di cui è stato allievo.
Quando sono entrato nel dojo del Maestro Kaneko, attuale direttore della scuola Kenbukai e allievo di Hiroshige, mi sono sentito come a casa, trovando conferma della mia ricerca degli ultimi trenta anni, all’interno di un dojo in cui, un clima di serenità, si pratica un karate completo e bilanciato rtra la pratica agonistica e quella marziale.
N – Quale valore dai all’esperienza delle gare?
S – la gara è una esperienza estremamente formativa perché permette di gestire l’ansia, una bella parola con cui mascheriamo la paura, e inoltre mette alla prova la nostra tecnica contro un avversario non collaborativo all’interno di un regolamento abbastanza realistico.
N – Quando le protezioni? Quali protezioni?
S – In palestra sempre!
Nel caso di kumite “pesanti”, tra agonisti, faccio indossare caschetto, paradenti, paravambracci, guanti, corpetto, conchiglia inguinale, ginocchiere e paratibia.
Durante le lezioni regolari, sotto la mia supervisione, chiedo di praticare forme più leggere di kumite, ma sempre con paradenti, guanti, conchiglia e paratibia
N – Ho letto che ritieni i Kihon (i fondamentali) l’aspetto più importante della pratica.
In quale misura l’esigenza di esercitare attacchi al volto e relative difese può essere soddisfatta dai Kihon?
S – Lo scopo non è solo sviluppare un buon pugno, ma la capacità e la versatilità di saper usare tutto il corpo in maniera versatile, così negli spostamenti, come nelle parate e negli attacchi.
N – Ove si ritenga necessaria l’esperienza della gara, perché non si usano i caschetti?
S – Io ritengo che un buon atleta dovrebbe essere versatile e non farsi condizionare dai regolamenti, per cui spesso organizzo tornei con i caschetti, chiusi o aperti.
In realtà i caschetti risolvono parzialmente il problema della sicurezza, tanto che nel pugilato olimpico sono stati eliminati, e spesso fanno concentrare il praticante solo sui colpi al capo, con rischi addirittura maggiori tra gli amatori.
N – Dalle tue foto ho visto che sei immortalato anche con i guantoni.
Dianzi ho riportato una foto del fondatore del Kyokushinkai, Mas Oyama, a torso nudo mentre porta un potente tsuki (pugno): è evidente la differenza radicale con un pugno pugilistico, qual è obbligato dall’uso dei guantoni. Non ritieni che sia controproducente alternare una pratica “tradizionale” ad una con una con guantoni?
S – ho praticato pugilato per un poco e credo che ogni karateka dovrebbe avere l’umiltà di entrare sul ring con i guantoni.
Come ho detto sopra se si intende diventare efficaci bisogna, per quanto possibile, esporsi a nuove esperienze ( e rischi controllati!)
N – Ultima domanda. Ho letto che le tue poliedriche esperienze di arti marziali ed il tuo isolamento qui al Nord-Est ti hanno fatto trovare una tua ‘via’, un tuo ‘do’. Puoi spiegarmi le caratteristiche del tuo personale metodo?
S – in realtà ogni Sensei ha suo metodo personale di insegnamento.
Diciamo che nel percorrere la via marziale (Bu-do) si dovrebbe andare solo in avanti, quindi ora mi trovo forse un poco più avanti di altri e un poco più indietro di altri ancora.
Go-kui, l’essenza del Budo, è qualcosa che si può capire esclusivamente da soli, spero di poter continuare questa mia ricerca per molto altro tempo ancora, e sempre procedendo in avanti.