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La differenza tra sport e Budo: un’intervista al Maestro Iwasaki

Una doverosa premessa

Quella che segue è una intervista rilasciata da Tatsuya Iwasaki, già ottimo agonista di kyokushinkai, allievo di Shihan Hiroshige e, attualmente, allenatore di diversi validi atleti di arti marziali miste, nonché fondatore della scuola di combattimento Goukikai.
Ho tradotto e adattato il testo inglese, il quale era già una traduzione dell’originale giapponese (https://d3b.jp/npcolumn/9639).
Ho avuto modo di ammirare la tecnica di Soshou Iwasaki sulle vhs che, a caro prezzo, riuscivo a procurarmi dal Giappone venti anni fa, prima di poter fare finalmente la sua conoscenza nel 2018 e tornare a allenarmi con lui nel 2019, nella palestra di Tokio dove insegna.
Soshou non ama insegnare a gruppi troppo numerosi, ritiene che il suo modo di praticare karate si adatti meglio a un piccolo numero di persone.
Mi sono sentito subito in sintonia con il suo pensiero, che riflette le mie aspirazioni per un karate e per un’arte marziale efficace e formativa.
I lettori mi permettano, come da titolo, una doverosa premessa.
La pratica del kata e degli stili interni può davvero portare a una comprensione più profonda del combattimento e, in generale, del Bu-do, ma è necessario aver praticato con scrupolo i fondamenti delle arti marziali e il combattimento, anche sportivo, con altrettanto zelo.
Personalmente ritengo che alcuni combattenti siano forti indipendentemente dallo stile praticato e che la presa di consapevolezza dei propri limiti, con conseguente cambio di direzione della propria pratica, debba sempre essere il risultato di un lungo percorso e di una profonda riflessione personale.
La profondità delle parole di Soshou, il suo desiderio di ricerca e la modernità del suo sistema di combattimento sono il risultato di questo percorso di formazione personale.
Buona lettura,

Sensei Andrea Stoppa

La differenza tra sport e arti marziali: un’intervista a Soshou Iwasaki

Intervistatore (D): Nel 2001 lei ha lasciato la organizzazione Kyokushinkai-kan, dopo una lunga e onorevole carriera nel karate, per cercare una conversione nelle arti marziali miste (MMA, Mixed Martial Arts), e nel 2002 ha affrontato uno dei più forti combattenti di sempre: Wanderlei Silva.
Ho saputo che quel combattimento fu, al tempo, l’occasione per cominciare a studiare il karate di Okinawa.
Iwasaki (R): Il motivo che mi spinse a studiare il karate di Okinawa fu che se mai avessi avuto la possibilità di combattere contro Wanderlei Silva, avrei voluto essere sicuro di sconfiggerlo.
A quei tempi non avevo conoscenza dei metodi specifici di allenamento nelle MMA, necessari per affrontare quel tipo di competizione.
Quando mi allenavo sotto la guida di Shihan Hiroshige (1947-2018) nel dojo di Jonan a Tokio (dove sono stati formati campioni del mondo di kyokushinkai quali Kenji Midori, Kenji Yamaki, Hajime Kazumi e Norichika Tsukamoto, ndt.) avevo anche praticato arti marziali cinesi, come l’Yi-quan, proprio per questo motivo.
Successivamente ebbi l’opportunità di discutere di questi aspetti dell’allenamento con Kenji Ushiro, Sensei di Bu-Jutsu Karate (come “Bu-jutsu” karate dovremmo intendere una arte marziale che contempli i principi educativi del “do”, o “Via”, ma mantenga l’efficacia del “jutsu”, o “metodo”, tipica di quelle arti marziali che avevano come unico banco di prova lo scontro reale sul campo di battaglia, ndt).
Insieme a un mio compagno di allenamenti ci allenammo con questo Sensei, e io feci kumite contro di lui ma non fui capace di fare nulla.
D.: Intende dire che lei non fu capace di attaccarlo?
R.: Esattamente, non riuscivo a attaccare, fui semplicemente sconfitto.
So che molte persone non potranno capire quello che mi è accaduto, e che altri potrebbero dire che sarebbe bastato lanciarsi contro il mio avversario e attaccare a piena forza, ma questi aspetti sono difficilmente comprensibili fino a quando non si affronta una sfida reale.
Onestamente ho pensato che avrebbe potuto uccidermi.
Dopo questa esperienza ho capito che fino ad allora quello che avevo praticato era solo sport, molto lontano dalle vere arti marziali.
D.: Qual è la differenza tra sport e arti marziali?
R.: Qualunque cosa tu faccia, fino a quando tutto ciò riguarda una vittoria, si tratta di sport.
Lo scopo della pratica delle arti marziali è padroneggiare le arti marziali stesse, non vincere.
Dal punto di vista dello sport, se anche tu usassi le arti marziali in competizione, ma non vincessi, questo non sarebbe un risultato.
Questo riguarda anche le MMA e, come allenatore, io penso la stessa cosa.
Ma dal punto di vista del Bu-jutsu, anche se io vincessi, non vorrebbe dire che io ho vinto grazie alle arti marziali.
Avrei solo vinto una competizione sportiva, una cosa abbastanza simile, ma una contraddizione.
D.: Forse perché per il Bu-jutsu la vittoria riguarda una battaglia o uno scontro senza regole?
R.: Esattamente!
Ad esempio: il karate sarà uno sport dimostrativo ai Giochi Olimpici di Tokio del 2020, ma una medaglia d’oro e la felicità che ne segue non sono un aspetto del vero Bu-jutsu, lo scopo è sempre diverso.
Penso ci sia qualcosa di più importante di questo.
D.: Quali sono stati i cambiamenti più significativi dal momento in cui ha cominciato a allenarsi con questo Sensei?
R.: Mi ha insegnato Bu-jutsu dal 2004 al 2008.
Durante i primi tre mesi mi sono accorto che il mio modo di praticare il kumite stava cambiando.
A quei tempi stavo ancora cercando di diventare un combattente di MMA, così mentre continuavo a praticare con quei combattenti professionisti, la mia interazione con loro cominciò a cambiare.
Cose di cui prima non mi rendevo conto diventarono per me visibili, come quando avversari che non avevo mai sconfitto, venivano misteriosamente battuti.
Mi riesce difficile spiegarmi.
Cominciai a pensare che attraverso gli insegnamenti del maestro qualcosa era cambiato.
D.: Così in soli tre mesi qualcosa era cambiato…
R.: Esattamente.
Mi trovavo ancora quel livello nel quale cercavo di “vedere” le tecniche.
Decisi quindi di investire la mia vita nel Bu-jutsu karate.
Era per me la scoperta di un mondo nel quale i tre elementi di “riproducibilità”, “obiettività” e “universalità” erano perfettamente realizzati.
Potevo sentire che non importava quante volte o in quali contesti io facessi una tecnica, la sua essenza non cambiava, quasi fosse una legge immutabile.
Per esempio, se in un match di pugilato un atleta abile nel contrattaccare incontra un avversario altrettanto abile nel lanciare il primo attacco, la velocità di uno dei due sarà subordinata alla lunghezza del braccio.
Proprio perché ci sono queste condizioni, e non c’è una “legge”, non è possibile riprodurre in altri contesti una tecnica che si sia dimostrata efficace in questo scontro specifico.
Non si tratta quindi di Bu-jutsu.
Non sto più imparando direttamente dal mio maestro, ma sto praticando quello che mi è stato insegnato quindici anni fa.
Così anche se sto insegando a un allievo o mi sto allenando da solo, posso inventare illimitate possibilità per utilizzare le mie tecniche.
Le tecniche escono fuori spontaneamente.
Più ripeto i cinque kata di base (Naiahanci, Sanchin, Kusanku, Passai, Seisan, ndt.) e i movimenti di base, che ho imparato da Sensei, più sono approfondire le mie tecniche, provando piacere nell’allenarmi e senza desiderio di smettere di farlo.
D.: Dunque sta ancora praticando i kata quali Sanchin e Naihanchi?
R.: Sì, e quando penso a questo aspetto della mia pratica, mi viene sempre in mente che l’insegnamento nel kyokushin del compianto Maestro Hiroshige era che il karate deve essere Bu-jutsu.
Ho cominciato a praticare il karate all’età di dodici anni, ma a quel tempo pensavo solo a diventare un campione.
Ma anche se tu vincessi delle gare centinaia di volte, sarebbe accaduto solo perché avevi le conoscenze pratiche sul come ottenere la vittoria, non perché avresti appreso i principi delle arti marziali.
La pratica del Zhan Zhuang (in cinese “meditazione eretta”, in giapponese “ritsu-zen”) dell’Yi-quan (in giapponese “I-ken”), che ho continuato a praticare a mio modo in questi anni, ha svolto un ruolo importante nella comprensione di questi aspetti del Bu-Jutsu Karate.
Ho sempre detto che il Bu-jutsu deve essere composto di tre elementi.
Innanzitutto deve essere riproducibile.
Se una tecnica avesse successo per puro caso, e non fosse riproducibile, allora non è realistica.
Dopo di che ci deve essere obbiettività e universalità, in modo che chiunque possa utilizzare la tecnica.
L’arte marziale insegnata da Sensei aveva tutti questi elementi.
D.: Questo significa che chiunque, ripetendo solamente i kata, potrebbe arrivare a questo livello?
R.: Non posso rispondere a questa domanda, perché nel mio caso i cambiamenti sono cominciati prima dal kumite che avevo praticato per anni.
Quindi non posso dire che se tu ripetessi solamente i kata diventeresti più forte, magari limitandoti solo a ripetere meccanicamente una sequenza di movimenti e senza praticare i bunkai, tra i quali il livello definito “bunkai kumite” è quello che riveste la maggiore importanza.
Ad esempio: rispondi a un attacco di pugno con ude-uke (nel kyokushin questa parate è conosciuta come “uchi-uke”) e contrattacchi con una tecnica di pugno.
In questa semplice sequenza sono contenuti quattro principi del Bu-jutsu.
Innanzitutto devi poter leggere la mente del tuo avversario e il suo movimento iniziale.
Poi sentire se ti sei mosso o meno secondo il “sen” (in giapponese “anticipazione”, ndt).
Ci sono due tipi di sen: sen no sen (azione preventiva) e go no sen (provocare l’azione e agire successivamente all’attacco).
Successivamente devi aver controllato la distanza, o “ma”, lo spazio tra te e il tuo avversario
Nel Bu-jutsu “ma” è la distanza dalla quale è possibile colpire l’avversario senza essere colpiti.
Infine devi unire questi tre aspetti, e si dice che questo stadio finale sia la chiave per neutralizzare l’avversario, che si sia stati capaci o meno di entrare nel suo spazio vitale.
Questi sono gli aspetti più importanti delle arti marziali espressi nel loro giusto ordine.
Guardando un combattimento sportivo puoi essere testimone di qualcosa simile, ma è un evento occasionale, ben lontano da quella legge immutabile a cui mi riferisco, infatti non è possibile ripetere quel movimento in quello stesso modo in altri momenti, facendo così venire a mancare il fattore della riproducibilità.
Per essere più chiaro: cosa fai per aiutare tuo figlio a andare in bicicletta?
Cadrà continuamente e tu lo farai continuamente risalire!
Come nell’apprendere a nuotare, una volta appreso a andare in bicicletta non puoi che migliorare, fino al punto di pedalare con una o addirittura nessuna delle due mani sul manubrio.
Ma, ovviamente, nessuno può fare questo dall’inizio.
Lo stesso sforzo lo fai cercando di ripetere più e più volte il bunkai kumite, tentando di avanzare verso il tuo avversario per controllarlo, non potrai riuscire le prime volte.
Potrai riuscirci forse in maniera inconscia, in questo senso potrai vedere, come dice il maestro, persone che non ripetono il kata riuscire dove tu hai fallito provandolo e viceversa.
Dico questo perché la pratica, il percorso di formazione nel Bu-jutsu, sono diversi da persona a persona e non esiste un ordine logico, un poco come se discutessimo se è nato prima l’uovo o la gallina.
Riguardo all’allenamento, esiste un modo di dire: “allenati nella scuola Naha e combatti con la scuola Shuri”.
Forgiato nel corpo e nello spirito con il kata Sanchin della scuola Naha, puoi capire come usare in un combattimento reale i kata della scuola Shuri come Naiahanchi, Kusanku o Passai.
Molti anni fa il leggendario karateka Choki Motobu (1870-1944) allenava solo Naiahanchi.
Lo capisco pienamente.
Questo kata non ha tecniche difensive, ma contiene solo attacchi, infatti se tu pensassi di bloccare un attacco in uno scontro reale, non faresti in tempo.
Alla fine del mio percorso ho imparato il kata Seisan, della scuola Naha ma, per i suoi movimenti e i suoi contenuti, molto vicino alla scuola Shuri.
Mi sono subito sentito attratto dalla strategia di questo kata e dalla scuola Shuri in generale: quando l’avversario attacca, avanzi verso di lui e assumi il controllo delle sue azioni.
In generale tutto si svolge in un’unica azione, non ci sono due tempi nel movimento, come parata-attacco.
Questi movimenti sono separati in fase di apprendimento, così come in qualunque altro sport, ad esempio il baseball, ma ovviamente c’è una profonda differenza tra l’applicare un’arte marziale e il praticare uno sport.
Più recentemente la pratica dello Zhan Zhuang è stata inserita in maniera regolare nei miei corsi, ma sebbene il lavoro che eseguo e insegno sembri lo stesso visto dal di fuori, i suoi contenuti interni sono gli stessi dei kata del Bu-jutsu karate.
Questa forma di Zhan Zhuang e il kata Sanchin sono in sincronia per me.
D.: il nome Sanchin è lo stesso, ma è completamente diverso dallo stesso kata del Kyokushin, non è vero?
R.: Non ho mai praticato seriamente i kata quando mi allenavo nel kyokushin..
Li memorizzavo e basta per i passaggi di grado.
Non ho mai percepito nulla di reale nei kata.
Se qualcuno che mi avesse conosciuto a quei tempi sapesse che ora lavoro duramente sui kata, ne sarebbe davvero sorpreso!
Anche con queste premesse è però difficile trasmettere questo tipo di karate.
Nella pratica quotidiana è meglio praticare con una o due persone.
È fisicamente impossibile insegnare a dozzine di persone come ai miei tempi nel kyokushin.
Il mio desiderio è riuscire a realizzare a pieno la via del Kyokushin (il significato della parola kyokushin è “la via della verità definitiva”, ndt).
D.: Dopo il suo incontro con questo Sensei nel 2004, ho letto su un giornale che lei si sentì depresso, cosa era successo?
R.: Lo shock fu davvero grande quando realizzai che quello che avevo fatto fino ad allora non era arte marziale.
In realtà tutti quelli che praticano qualcosa chiamandolo “karate” pensano di praticare una qualche forma di Bujutsu.
D.: Lei sentì che quello che aveva praticato fino a allora non avesse valore?
R.: Sì, è così.
A ogni modo penso che lo studio nasca sempre da una esperienza simile di negazione.
Devi sempre partire da questo punto.
Anche se fosse una verità scomoda, è davvero così impossibile rimettersi in discussione?
Quale azione a questo punto rifletterebbe la via Kyokushin: voltare le spalle o mettersi in discussione?
Mi sono sempre fatto questa domanda e la pongo pure a altri.
A quel tempo mi sentivo deluso, depresso, ma cercavo di cambiare.
Se pensi che sia la cosa giusta, puoi scommettere la tua vita su questa scelta.
Questo è lo spirito Kyokushin per me.
Così ho sempre la percezione che la filosofia del kyokushin stia continuando a pulsare dentro di me.
Dal momento in cui nella mia mente è stata inculcata l’idea che il kyokushin è l’arte marziale più forte del pianeta, non posso semplicemente accantonare questo pensiero.
Le mie parole sembrano offuscare il karate di Okinawa, ma sto continuando a seguire l’ideale del kyokushin come da sempre.
D.: Capisco, è lo spirito del kyokushin ma la pratica è diversa
R.: La pratica non ha nulla a che vedere con il kyokushin classico.
Alla fine il kyokushin che ho praticato era uno sport, non un’arte marziale.
A ogni modo non sto negando il valore degli sport da combattimento.
Il maestro del mio insegnante soleva dire: “l’allenamento riguarda le arti marziali, e le competizioni gli sport”.
In breve il Bu-jutsu Karate non nega gli sport da combattimento o gli incontri.
Penso che le persone che hanno combattuto in gara e quelle che non lo hanno mai fatto siano completamente differenti.
D.: per finire, per favore, può dirci qualcosa riguardo al nome e alla filosofia della scuola?
R.: Il concetto del Goukikai è “praticare il Bujutsu e competere nelle MMA”.
Questo non vuol dire esclusivamente competere nelle arti marziali miste, ma che bisogna tenere bene a mente che un combattente deve essere versatile.
Più si lavora sui kata originali, più è possibile far nascere questa versatilità dentro di sé.
In questo senso le MMA sono il modo più naturale di particare il karate e affrontare una competizione.
Il nome della mia scuola proviene dal più vecchio testo di arti marziali del Giappone, chiamato “Tosenkyo”, e nel libro è riportata la parola “Goukikadan”: impavido e deciso con forza d’animo.
Da questa frase ho preso il nome della mia scuola: Goukikai.
Per caso, nella scelta del nome, compare una singola lettera del nome del mio maestro, Shihan Tsuyoshi Hiroshige.
Quando gli porsi i miei ultimi saluti prima della sua dipartita, egli mi sorrise e accettò questa mia scelta.
Ho ancora la sensazione di un misterioso legame con il nome del maestro che si è preso cura di me nel karate fin da quando ero bambino